“È colpa tua/sua!”
“Non so... Ma mi sento in colpa”.
Che frasi insensate.
Davvero: che senso ha “è colpa tua o mi sento in colpa”?
Non scherzo. Ho cercato e ricercato ma non riesco a trovarne il senso: la parola colpa sembra comparsa con il mea culpa, dal latino culpo, incolpare, accusare, biasimare, criticare.
Mea grandissima culpa biasimare, criticare, accusare me stessa per aver vincolato finora la mia e l’altrui vita al retaggio (insensato) della colpa. Ci ricasco. Non ne esco.
Più scavo più affogo nei sensi di colpa.
Non vedo L’altra verità di Alda Merini, ma solo la sua drammatica constatazione:
“Noi venivamo saziati di colpa, quotidianamente; i nostri istinti erano colpa; le visioni erano colpa; i nostri desideri, i nostri sensi erano colpevolizzati”.
Un retaggio perverso e pervicace, visto che la parola "colpa" mi ha riportata in vita ben due volte.
“Non è colpa mia!” è stato l'urlo di rabbia che ho sentito dopo esser svenuta su quell’autobus, 23 anni fa. Un soprassalto. La botta. Il buio. Mi sono ritrovata distesa a terra. L’ultimo dei miei pensieri era la colpa. Volevo sentire le mani, le gambe. Volevo sapere se ero ancora viva, se ero ancora in grado di muovermi, perché il dolore alla schiena mozzava il fiato.
“Non è colpa mia”, ripeteva la voce di quel viso sconvolto sopra di me. Era l’autista, ma sinceramente poteva essere il Padreterno e non mi avrebbe cambiato di una virgola. Io volevo solo sapere se avrei potuto ancora reggermi sulle mie gambe.
Quasi esattamente 12 anni dopo, scena complementare: “È solo colpa mia!” urlava la testa quando ha ripreso un minimo di conoscenza. “Ci sente? Apra gli occhi. Come si chiama? Ha figli? Che giorno è oggi?”. Nulla. Non ricordavo nulla. Se non che era colpa mia. E che se avessi mai avuto figli… poverini, sarebbero cresciuti senza un genitore. Mi sentivo in colpa per loro, indipendentemente fossero reali o immaginari. Ho fatto davvero fatica a fermarmi in quel voluttuoso tunnel bianco, per voltarmi e ascoltare le voci da fuori. Ma mi sentivo in colpa, quindi mi sono imposta di alzare un angolo di palpebra e dire: “Non so. Ma so che se non lo so è solo colpa mia”.
Surreale? Non così tanto da farmi cambiare registro: in entrambi i casi, dopo aver ringraziato il Cielo di potermi ancora muovere, sono tornata a correre dietro (o inseguita da) i sensi di colpa: tutta colpa del multitasking, di ignorare il rischio e le cadute, le cattiverie...
Perché in fondo, stavo a lambiccarmi sulla colpa e relativa origine che mi aveva portata ad attraversare di volata in bici le strisce pedonali, immersa in molteplici elucubrazioni, senza considerare il tram che mi avrebbe presa in pieno. Similmente, un decennio prima mi ero concentrata sulla colpa che poteva avere il conducente o il Comune di Milano se al pavé mancava un massello di granito e il sussulto aveva distrutto i semiassi, provocando la caduta del metallo che mi aveva infine fratturato la vertebra.
Non nego innumerevoli responsabilità e giustificazioni. Ma devo ricredermi sulla colpa, per il semplice motivo che non esiste colpa.
Ci ho messo mezzo secolo per domandarmi che senso avesse questa dannata colpa e per ascoltare le considerazioni della mia amica Maria Cristina: “La colpa è tutta un’invenzione crudele per prendere potere. Peggio: è violenza inaudita - chiarisce - perché manipola e mette in scacco l’uno e l’altro. È oscena voluttà di una spirale di dolore e autolesionismo”.
Ma come? Noi nasciamo marchiati dalla colpa del peccato originale…
Ferma: quale peccato? Il peccato di aver iniziato a sperimentare e con questo essere usciti dall’Eden? Più che peccato sembra l’azzardata dimostrazione che siamo umani.
“Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in errore manere”. Ho seguito Sant'Agostino solo quando mio fratello, mi ha ricordato che colposo è il delitto meno grave, anche se la colpa viene assunta come la pena capitale, nel senso che rimanere nell’errore d'interpretazione può esser paragonato a un suicidio colposo.
Uso volutamente una parola terribile come suicidio perché penso che rimanere nell’errore intenzionalmente possa essere tacciato di omicidio e suicidio colposo. Per non dire preterintenzionale: mi sento in colpa per non aver conosciuto prima il nonsenso di colpa, manipolando così anche chi mi sta vicino fino allo sfinimento…
Quindi? Cosa me ne faccio ora di tutte queste elucubrazioni sulla spirale di vittima/carnefice in cui mi sento blindata?
Mi aggrappo alla radice che mi regala una brillante amica di mio figlio: l'etimo più arcaico della parola colpa sembra derivare dal sanscrito kalp, capitare, occasionare, che nel gotico antico è stato interpretato come “provo ad aiutarti”, con annesso ma taciuto: “scusa se non ci sono riuscita”.
Risuona in kalp l’help anglosassone, e voglio vederlo davvero come un aiuto per assumere una diversa prospettiva.
Decido così di provare a sostituire il concetto di colpa con termini riconosciuti anche di diritto: errore involontario, irresponsabilità, negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza.
Poi mi giro ancora una volta indietro, con compassione, gentilezza e anche un po’ di sano egoismo. Perché per diventare un noi e promuovere un ecosistema, prima è meglio che mi assuma il diritto di esistere e di non morire col peso colposo (grazie, Giovi per l’ironia legale!).
Riconosco il diritto di esistere nel vivere e trasformarmi in modo consapevole e responsabile per stare bene, per salutare ogni giorno con gratitudine. Un altro modo di abitare il mondo, e cito di nuovo la mia mentor che già anni fa nel saggio (di nome e di fatto!) Counceling il modo di abitare il mondo, scrive:
“Scoprirsi ammalati, carenti, bisognosi di aiuto/correzione/penitenza/cura, è l’ingresso di diritto nell’attenzione dell’altro. In questa società penitenziale, e curva sotto il peso del disagio come unico scambio possibile, occorre promuovere la cultura del gusto dello star bene come occasione di ascolto, alleanza, investimento, progetto, vantaggio, convenienza. Occorre che impariamo a scegliere parole che ci portino a scivolare sopra l’acqua per spostarci verso dove vogliamo arrivare, occorre promuovere l’immaginazione, il sogno, il progetto, la speranza, la generatività. (…) Nessuno di noi sa di essere in possesso di una palla di Bombastium, una materia preziosa tutta nostra, impastata di risorse e capacità e competenze, che può rendere reali i nostri sogni e i nostri progetti (solo parlando con l’altro vengo a conoscere ciò che penso e so).”
Potente, no? Di più: per me è letteralmente Bombastium, una palla generativa e sensata.
In fondo l’alternativa non ha senso.
Non ha più alcun senso.
Così uccido in modo volontario il concetto di colpa e accolgo anche l’apparente negativo, per dar vita a un flusso di colori dai molteplici potenziali.
Con lo sguardo partecipe e rispettoso della mia Koch-amica.
PS: Avevo terminato l'articolo così, inserendo una foto di Maria Cristina che mi apre mondi di speranza in pensieri acuti e inaspettati. Ma ho sbagliato. Ho sbagliato perché lei merita uno, dieci, cento post dedicati alla sua fulgida esperienza, ai suoi pensieri sempre "un passo avanti", al suo magnetismo irresistibile.
Lo farò. Ora semplicemente mi scuso, perché ha prevalso l'entusiasmo di aver visto grazie a lei l'insensatezza di una catena che mi strozzava da sempre. E forse perché avevo bisogno di sperimentare che il senso di colpa non ha senso ma è opportunità per correggersi e migliorare.
Troppo denso e importante per commentarlo così a caldo. Devo rileggerlo con calma, meditarlo e farlo mio: comunque grazie grazie grazie per aver aperto una finestra (porta) di luce.
papà