“Mamma amore” dicono i miei figli vendendo questo scatto d'infanzia.
Mamma amore vale più di mille parole.
L’occhio di mio papà ha colto ha immortalato le due principali prerogative che ho ereditato: da lui scatti di entusiasmo, di curiosità, di generosità, di emozioni. Da mia mamma la sensibilità e la cura che hanno permesso a questo scatto di vincere il premio come miglior “Foto che parla d’amore”.
È suo quello spirito materno che mi ha caratterizzata fin da piccola.
Di necessità e virtù, ho sempre avuto un’attitudine materna, generatrice e accudente.
Sognavo di esser come lei.
All’inizio pensavo si potesse esser madri solo di bambini: non faccio mistero di quanto mi sia incaponita nella ricerca di figli, nella gestazione di tre embrioni di cui uno inatteso, che rendeva la gravidanza un’impresa destinata a fallire.
Ho seguito il cuore, ho lasciato crescere la pancia, ho zittito la ragione sotto un manto di fiducia. Fiducia in loro tre, nei medici, nella Mangiagalli dove sono stata ricoverata le ultime cinque settimane, affinché i feti formassero polmoni e cervello. Non ricordo paura. Non ricordo fatica. Ricordo mia mamma che ogni giorno mi portava frullati e centrifughe di ogni gusto per cercare di accrescere i livelli di liquidi. Ricordo la sua compagnia, le chiacchiere, le baguette e la Nutella che mi lasciava con aria complice per intrattenermi con altre “patologiche della gravidanza” la sera in ospedale.
Un sorso dietro l’altro, accumulando tutto il calore che ricevevo, sono triplicata come il lievito madre. E come l’impasto lasciato a riposo, la fiducia è stata ben ripagata: per quanto minuscoli, sono venuti fuori tutti e tre sani e salvi. Un miracolo, hanno detto in molti. Io ricordo una sensazione di “benedizione” soffusa, incredula di fronte all’abbondanza con cui vita rispondeva al mio bi-sogno di maternità: generare e accudire.
Ho generato e accudito per anni diversi altri progetti, professionali e personali. Una corsa continua, un multitasking quasi ossessivo.
Ero condizionata dal bisogno: il bisogno di dimostrare a me stessa che potevo farcela. Potevo creare e crescere sogni ambiziosi, talvolta impossibili.
Mi soffermavo solo sul fare, una lotta contro il tempo che non mi ha permesso di prendermi il tempo per riconoscere la magia del miracolo della vita. Una magia che ogni mio “figlio” mi ha messo in modo più che evidente sotto il naso. Ma io guardavo oltre: troppo distratta da come stavano, come nutrirli, come gestirli. Ho trasformato la devozione in sottomissione razionale. Non mi sono goduta quella quiete di stare, lasciando il resto fuori, adattandomi ai loro ritmi, illuminandomi d’amore, esultando nello stupore di continue scoperte ed emozioni.
Ho agito, non ho sentito. Tutti sbagliamo. Raramente in cattiva fede. Spesso condizionati da credenze, abitudini, risposte automatiche.
Ma per fortuna madri non si nasce. Né si diventa: credo che la maternità appartenga a ogni essere vivente, sia un processo continuo di trasformazione, di crescita.
Ognuno ha i suoi tempi. Io dovevo aspettare che nascesse il terzo figlio di mia sorella per notare e imparare che si può esprimere il coraggio di vivere la maternità con gioia, gratitudine, dolcezza, talvolta spensieratezza. Lasciandosi andare a sane risate per le magie che i piccoli combinano ogni due per tre. Lei li accoglie con dedizione presente, spontanea e materna, attraverso un sorriso, un tocco gentile, un radar sempre attivo. Anche un urlo preoccupato lascia trasparire latente una felicità profonda e grata. Lei è davvero una brava mamma.
E riconoscerlo mi sta permettendo di tornare agli essenziali: la gratitudine della vita che possiamo generare incontrandoci e aprendoci con l’altro. Con materna letizia e appagamento.
Essere madre è il lavoro più difficile che esista, commentavamo oggi con una sorella d'elezione.
È vero: non esiste manuale. È una danza, un salto quantico, un equilibrismo continuo. Un ping pong tra dare e avere, tra innamoramento e amore
Essere madre ha per me la stessa mater(ia) della gratitudine. Il profumo di buono, il gusto di torta di mele appena sfornata, il suono di un campanello, due occhi che ti guardano nel cuore.
Da sempre provo gratitudine per mia mamma, per l’amore di una vita dedicata a noi figli e per la dolcezza che ci ha evidenziato l’importanza della sensibilità.
Mi emoziona la gratitudine per mia nonna, per il suo coraggio e il suo sorriso.
Mi commuove la gratitudine per le amiche con cui confidarsi e prendersi cura è reciproco quanto naturale.
Mi lascia ammirata la gratitudine per le persone che, a prescindere dal carattere e dal sesso, esprimono il materno che gli appartiene, trasformando l’energia in forza inclusiva di umanità, cura, attenzione, gentilezza.
Sono grata a Madre Terra, memento inarrestabile dell’esuberanza della natura che non teme alcuna potatura, alcuna battaglia.
Oggi ammetto anche gratitudine per me stessa e per chi mi è stato accanto durante l’ennesima gravidanza, l’ennesimo parto, l’ennesimo svezzamento. Non temete, non ho dato alla luce altre tre creature. Ho solo riconosciuto che non potevo accudire nessuno se prima non imparavo a essere madre. Madre di me stessa. Con comprensione, compassione, tenerezza, attenzione, amore senza giudizio. Inchinandomi con umiltà alla disarmante trasformazione che implicava riconoscere (anche) i miei bi-sogni, la mia biologia, la pazienza di fermarsi e ascoltarsi.
Sinceramente mi è sembrato più lungo e più faticoso di una "normale" gestazione. Ma ne valeva la pena. L’indole materna è tutto fuorché uno spirito da minimizzare, perché è letteralmente vitale.
La forza dell’accoglienza, del farsi due (o quattro!) in uno, del percepire una richiesta prima ancora che sia espressa, del perdersi in un abbraccio anche solo con una bambola, dell’amare incondizionatamente, è entusiasmante.
È condividere il miracolo della vita, le sfumature, i cambiamenti, le vibrazioni dell’esistenza.
Non amo le feste comandate, perché penso che tutte andrebbero celebrate ogni giorno. Ma sono grata a questa festa della mamma perché mi ha permesso di soffermarmi a riflettere. Non solo su quanto diamo o ci è stato dato. Ma anche su quanto riceviamo: un pensiero, una telefonata, un’attenzione, un sorriso, una tenerezza, un grazie, una compilation di delicate melodie.
La maternità è un dono. Il dono del dare. Dare vita, dare alla vita e dare la vita. Dare alla luce. Dare nutrimento. Dare una mano. Dare speranza. Dare un bacio. Dare un abbraccio. Dare amore. Senza fine...
Diamo 365 giorni all’anno. Ma a ben pensarci riceviamo anche 365 giorni all’anno. Perché la gioia che si prova nel generare e partecipare alla vita di un figlio (reale o virtuale poco importa) è infinita.
Dovremmo noi ringraziare i nostri figli e i nostri progetti di esser venuti alla luce per sollecitarci a crescere e migliorare insieme, giorno dopo giorno. Ogni incredibile giorno di queste vite intrecciate, indipendenti nella nostra dipendenza dal cordone ombelicale.
La maternità è un potenziale che appartiene a tutti. Tiriamola fuori ogni giorno.
Condividiamola, non per necessità ma per attestare il motivo madornale per cui siamo al mondo: generare piccole meraviglie, prendercene cura e scambiarci energia. Perché tante ne diamo, tante ne riceviamo.
Prendiamoci cura di noi. Non (solo) di noi mamme. Noi (solo) di noi figli. Non (solo) di noi società. Prendiamoci cura di noi, insieme. Con gentilezza, fiducia, tempo dedicato alla maternità.
Lo scambio è biunivoco: io ti nutro, tu mi nutri. Di amore e di gioia.
Vi sembra poco?
Brava bravissima Marghe, hai scritto un vero capolavoro emozionante